Guido Oldani: il coronavirus e il realismo terminale
Aprile 27, 2020“Una società cambiata in modo automatico dalla tragica pagina collettiva del coronavirus? Sarebbe bello, ma è davvero semplicistico pensare a un bagno di solidarietà che poi resta “endemico” in mezzo a noi. Alcuni uscirano migliorati spiritualmente, anzi stanno uscendo, ma come singoli. Il coronavirus non ribalta la società per il solo fatto di esserci stato”.
Guido Oldani, 72 anni, poeta e critico melegnanese di rilevanza internazionale, risponde ad alcune domande sulla sua esperienza personale in “tempi di coronavirus” e prova a immaginare uno scenario per il dopo. Quella che si ama ormai definire nuova normalità.
Lo abbiamo raggiunto nella sua abitazione di via Vincenzo Bettoni, dove come tutti noi da inizio marzo vive più o meno in isolamento domiciliare:< L’elemento choccante del coronavirus è stato a mio avviso la “riscoperta del corpo” – esordisce Oldani – nel senso che prima vivevamo in un’atmosfera immateriale e caratterizzata da una sorta di spostamento “spirituale” di tutti noi da una parte dell’altra del globo: a nostro piacimento e nei tempi da noi predisposti. Prendevamo l’aereo come si prende la bicicletta, le connessioni internet ci permettevano l’ubiquità e la contemporanea presenza in più luoghi, il dialogo con tutti e ovunque. Invece il coronavirus ha riportato drammaticamente al centro i corpi, io dico che è stata una “resurrezione dei corpi“. Intanto per la realtà della malattia e della fragilità, del limite della nostra corporeità. In secondo luogo perchè le vie della globalizzazione, gli interscambi, le corsie rapidissime, sono state risalite a ritroso da una cosa assolutamente biologica ed elementare come un virus>.
La corrente artistica che da te ha mosso i passi, il “realismo terminale”, vocabolo da te coniato più o meno una dozzina di anni fa, preconizzava alcune cose che poi la pandemia in corso ha dimostrato essere vere. Ad esempio la scelta sempre più cogente e costringente di vivere nelle grandi aree metropolitane, nelle città e nei sobborghi, in enormi condomini, accatastati gli uni sugli altri. Come a Wuhan. Ma anche a Milano, un pò. Insomma sulle “rotte del virus”.
<Il realismo terminale teorizza che noi siamo oggetti e tutto quel che resta della Natura imita gli oggetti. In altri termini, l’oggetto e il possesso dell’oggetto diventano il fine ultimo e il parametro dell’esistenza. In questa “reificazione” di noi medesimi muta anche la lingua, per cui termini presi a prestito dal mondo delle cose diventano i più adatti a descrivere le persone (viene qui da pensare allo “smart working”, che riprende il suffisso di “smartphone”, i lavoratori come app, nda). Io sono convinto che se oggi Jean de La Fontaine riscrivesse le sue Favole seicentesche farebbe parlare non la volpe e il gatto, ma il cellulare con la lavatrice. Come dicevo nella precedente risposta, questo pianeta proteso alla produzione e al consumo di cose ha visto insinuarsi, sulle strade dell’economia, un agente primordiale che ci ha fatto riscoprire il corpo>.
Quindi, che lezione ci ha impartito, o meglio ci sta ancora impartendo, il Covid?
<Mi piacerebbe pensare ad una sorta di mutamento morale generale. Ma sarebbe troppo facile. Cambiano i singoli, quando arrivano al fondo delle domande. Ad esempio io che sono cattolico praticante ho guardato con estremo interesse a quello che è accaduto in alcuni reparti di terapia intensiva, dove alcuni medici giovani ed atei professi, osservando i sacerdoti amministrare l’estrema unzione, hanno cominciato a considerare più seriamente il fatto religioso. Anzi, qualcuno si è convertito. Nei giorni scorsi altri tre miei amici mi hanno confidato di aver riaperto il Vangelo cominciando a farsi qualche domanda: anche loro non provenivano dalle schiere degli assidui alla messa. Ecco: questi sono mutamenti. Ma se un fenomeno passa superficialmente, anche la ripresa sarà superficiale. Continueremo a preoccuparci delle vacanze>.
Tu ti senti inchiodato alla categoria dei “nonni” e dei soggetti fragili, spietatamente delineata da questa pandemia?
<Io penso che tutti in generale si abbia “l’età delle proprie idee”. Uno deve guardare a quando sono nate le sue idee importanti: gli anni vanno contati da lì. In questo periodo ad esempio i miei libri e il movimento del realismo terminale sono stati recensiti dalla “Literaturnaya Gazeta”, il più prestigioso periodico russo di letteratura e poesia>.
Emanuele Dolcini