Il ricordo di Maradona fra arte e filosofia

Novembre 27, 2020 0 Di Redazione

La morte di Diego Armando Maradona ha suscitato, nella mia famiglia dove abbiamo più o meno “armeggiato” tutti fra arti varie, storia, letteratura, musica, giornalismo, ma dove il più calciofilo di tutti sono io, appassionato di livello medio che si intristisce da 25 anni di fronte alle gesta crepuscolari del Torino, una serie di riflessioni che hanno più a che vedere, a dire il vero, con l’arte che con lo sport. Una prima domanda che mi è sorta discutendone con i presenti riguarda un ambito di riflessione classico per chi, coltivando un’arte (e il calcio lo è), ama indagare anche sulle “leggi”, o regole, che tale arte esigerebbe. E la domanda è precisamente questa: per essere artisti è necessario anche vivere il conflitto con la società circostante? Sarà retorico continuare a chiedersi se il creativo debba portare in sè, almeno in parte, il dna del disadattato sociale, ma la vicenda soprattutto umana di Maradona ce lo ha riproposto ancora una volta. L’hanno definito “bambino infinito”; è morto tirandosi ancora dietro a sessanta anni l’appellativo di “pibe”, e quindi se ne deduce che se vuoi essere un campione, vivere fino in fondo la tua arte, devi rassegnarti a tagliare i ponti con la normalità del vivere che vuole quel bambino via via più sempre più represso sotto il pelo sullo stomaco delle convenzioni sociali. Mai come nel caso di Maradona l’espressione “genio e sregolatezza”, che parrebbe ciarpame verbale in altre situazioni, esige la sua verità. Non c’è una risposta univoca e d’altronde anche conducendo una sorta di sondaggio volante per far pendere la bilancia in una direzione (“sì, l’artista deve pagare il prezzo del suo anticonformismo”; “no, vivere non è opposto a scrivere”, quindi a “giocare”, si noti il verbo, al calcio) non ne esce un chiaro responso. Per un Franz Schubert morto da bohèmien a 31 anni c’è un Giuseppe Verdi campato 88 amministrando benone i suoi diritti. Per un Jimi Hendrix abbiamo il suo coetaneo Paul McCartney che non ha nessuna voglia di ritirarsi nel ruolo di “nonnino rock”. Chi lo sa. L’arte forse esige sempre un certo tasso di a-socialità, ma non è detto che culmini in autodistruzione. Da questo punto di vista Maradona è stato autentico. Tutto gli si può imputare tranne la falsità, ma è stato uno sportivo ben poco atto ad interpretare il ruolo di campione contemporaneo, quelli capaci che sanno parlare in conferenza stampa senza dire nulla di preciso. Ai giovani si spieghi Maradona come “l’ultimo degli antichi”, più che il primo dei moderni. Un’altra cosa su cui si rifletteva di fronte alla tv è il contrappasso ineluttabile delle due vite del calciatore: finchè allacci gli scarpini e quando li appendi al chiodo. Il fantasista, l’asso, il realizzatore, in genere l’attaccante, ben raramente riesce in seguito a diventare valido direttore d’orchestra, cioè allenatore. Gli esempi contrari trovateli voi ma sono ben pochi: per cento Trapattoni o Beckenbauer, ma anche Allegri e Gasperini, abbiamo avuto un Cruijff. Forse anche per questo c’è qualcosa di più commovente nell’addio al calcio giocato del realizzatore, dell’idolo dello stadio, rispetto a quello del centrocampista che già sai che, tempo due o tre anni, ti si riproporrà dalla panchina, dietro il fallo laterale. Anche a Maradona, purtroppo, non è stata concessa la rivincita nella partita di ritorno. Dalla panchina.

Emanuele Dolcini

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